A formaçao do homem

"O que um homem pode ser, ele tem de ser" A. MASLOW



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quinta-feira, 24 de novembro de 2011

La difficoltà del vivere


Vorrei dichiarare subito la mia posizione in ordine al tema delle difficoltà del vivere. Noi siamo un edificio complesso: la lingua greca, una delle lingue che più ha dato al pensiero umano, ha espresso molti termini per dire la molteplicità della ricchezza che portiamo dentro di noi: soma, bios, zoe, psiche, logos, nus, pneuma. Possiamo fare una sintesi di tutti questi termini, che è la stessa fatta dall’apostolo Paolo, e dire che noi siamo: corpo, psiche e spirito. In ordine alla sofferenza, per quanto attiene alla dimensione corpo, possiamo dire che meno c’è sofferenza meglio è, e quindi bandire ogni tipo di dolorismo. Per quanto attiene alla dimensione psichica, al nostro carattere, alla disposizione di fondo con cui guardiamo agli altri e a noi stessi, più c’è armonia, meno c’è sofferenza, meglio è. E ogni impostazione che vuole introdurre tristezza e angoscia all’interno della dimensione psichica, è dannosa. Io sono convinto che il cristianesimo abbia un vero e proprio “peccato originale” da scontare nei confronti dell’umanità che consiste nell’avere gravato il fenomeno umano di questo grande senso di colpa originario per il fatto stesso di esserci. Ma poi esiste una dimensione nella quale ci diciamo come spirito, ed è la dimensione della libertà, dove la sofferenza è costitutiva dell’essere umano, e ogni impostazione che voglia pensare il rapporto con Dio, con l’Intero, senza sofferenza, è falsa. Se qualcuno non vuole avere a che fare con la sofferenza dello Spirito, può cessare di credere in Dio. Ci sono persone che rinunciano a ogni tipo di esercizio spirituale e credenza in Dio e si sentono come sollevate: finalmente respiro! Ci sono persone così perché esiste una modalità negativa di collegare il divino con le sofferenze del corpo e della psiche; ma esiste anche una responsabilità della coscienza libera, che si pone di fronte al complesso del mondo, di natura e di storia, lo osserva come dall’alto, si percepisce nel suo spirito come “diverso” e reagisce soffrendo. Io penso che questa forma di sofferenza sia riconducibile a quello che Aristotele chiamava nus pateticos, intelletto passivo, spirito non creativo: se penso e dico delle cose è perché subisco degli stimoli che mi fanno reagire e quindi io sono intelletto passivo devo essere attivato, sono un fenomeno che reagisce. 
Ma l’uomo ha un intelletto superiore a questo, una scintilla, spirito creativo, intellettivo attivo, ovvero per essere, pensare, agire, non ha bisogno di essere attivato, può agire e non solo reagire. Sono libertà, chiaramente condizionata, ma esiste una dimensione dentro di me che è attiva e questa è lo spirito, la libertà. È dalla sofferenza nel senso più bello del termine, dal pathos, l’emozione vitale della passione, dal pathos dello spirito attivo dentro di me che nasce la fede in Dio. La fede in Dio non nasce da un “buco da colmare”, da una sofferenza da placare, ma è un ponte tra il mio spirito che vuole il bene, la libertà, la giustizia e il senso complessivo del mondo. Se guardo il mondo come si pone di fronte a me, senza tradire il mio desiderio di giustizia, mi trovo inevitabilmente scisso: so che sono un fenomeno del mondo, ma se guardo il mondo all’interno di questa dimensione più alta che il mondo ha prodotto in me, non mi ritrovo a casa. Provo un sentimento di esilio, di estraniazione per il prevalere di logiche che non sono quelle del bene e della giustizia a cui sento di appartenere. La fede in Dio è questo ponte che unisce la scintilla di bene incontaminata che esiste dentro di noi e il senso complessivo del mondo.

Chi crede in Dio costruisce questo ponte. È questo il senso con cui Bonhoeffer nominava la forza: sentiva la tattica degli apologeti che ricordavano le debolezze dell’uomo, per invocare il pentimento, e non voleva assumerla; al contrario voleva partire dalla forza dell’uomo. La forza non è il nostro corpo, che prima o poi è destinato a non essere più quello di un tempo; né la nostra psiche, il carattere, che da una parte ci esprime e dall’altra ci limita. Qual è allora la forza dell’uomo? Secondo me il maestro di coloro che sanno è lo spirito, questa dimensione di libertà creativa che si dà dentro di noi, che si dà in diversi modi, attraverso doni speculativi, artistici, musicali, quotidiani. I quali tutti devono essere orientati a creare rapporti di armonia, di gratuità, di generosità dell’esistenza. Più si capisce la vita più si comprende che il senso sta proprio nella generosità, nella creazione che è sempre un atto generoso se è profondo. Basare la fede in Dio sulla forza dell’uomo, sulla nobiltà umana. Esercitare la parte più alta di noi, la ragione, per guardare il fenomeno mondo, e per guardare tutto: la fede non è cieca, è guardare tutto, raccogliere tutti i pezzi di mondo, anche quelli che non vogliamo vedere, quelli che vorremmo mettere sotto il tappeto della mente, e metterli di fronte agli occhi. Guardare tutto, vedere con sguardo pulito, disincantato è una grande operazione di verità. Al centro della modernità c’è un personaggio che ha compiuto questa operazione, Kant: ha esercitato nel modo più rigoroso e onesto possibile l’esercizio del vedere ed è giunto a inchiodare la ragione alla logica che implacabilmente si impone a chi guarda tutto. Questa logica si chiama antinomia: la contraddizione della vita vista e pensata. È la contraddizione istituita, la consapevolezza che il mondo si muove in modo contraddittorio e quindi so di essere al cospetto di una antinomia. Cosa significa antinomia? Contrasto tra le leggi. Questa parola di origini giuridiche è entrata in filosofia per dire lo statuto della mente quando guarda il mondo. Noi avremmo mille ragioni per dire che la vita è giusta, che esserci è una benedizione, che l’umanità è la gloria dell’universo, e avremmo mille ragioni per dire che la vita non è giusta, che esserci può essere una maledizione, che il mestiere di vivere può portare a non voler più vivere e che l’umanità è ben lungi dall’essere la gloria dell’universo, semmai è il terrore dell’universo. Il punto è che noi siamo al contempo coloro che producono la malattia e gli unici che hanno la possibilità di guarirla, conteniamo davvero tutto. Pensare l’antinomia significa percepire il mistero. Norberto Bobbio come noto si dichiarava non credente; il 10 gennaio 2004, il giorno dopo la sua morte, su La Stampa di Torino compare una sua lettera scritta qualche anno prima, oggi nota come ultime volontà. In questa lettera scriveva: “non sono né ateo né agnostico, come uomo di ragione non di fede so di essere immerso nel mistero che le religioni interpretano in vari modi e di fronte a quel punto la ragione si ferma”. Come uomo di ragione non di fede: in queste parole è contenuto il passaggio dalla modernità alla post-modernità. La modernità si poggiava sulla convinzione che esercitando la ragione il mistero della vita avrebbe potuto essere sciolto. La post-modernità si gioca invece sull’idea opposta: esercita la ragione fino in fondo e sarai posto di fronte al mistero. Gli stessi scienziati si dividono di fronte ai dati oggettivi che la loro stessa scienza presenta: tra il 1910 e il 1913 Alfred Whitehead e Bertrand Russell scrivono i Principi della matematica in tre volumi, pubblicati a Cambridge. Ovvero questi due grandi logici sono così d’accordo sull’esercizio della logica e della matematica da scrivere insieme tre volumi fondamentali nello studio della matematica. Tuttavia Whitehead è diventato uno dei pensatori metafisici più importanti per la filosofia della religione e per la teologia, autore tra l’altro de La religione nel suo farsi, mentre Russell è diventato uno dei padri dell’ateismo contemporaneo. Nel fenomeno umano c’è qualcosa di più della semplice logica matematica, che ne è una parte importante e positiva ma non riesce a dire il tutto della vita, se gli stessi logici matematici, che pure sono uniti nel lavoro, quando devono dire il sentimento ultimo di fronte alla vita, prendono strade diverse. La stessa cosa si può dire riguardo alla fisica, alla genetica, la ragione è guidata da qualcosa di superiore, è a servizio di una dimensione ulteriore che si chiama sentimento della vita, del mistero. La ragione ci offre tutti i dati che ricava dall’osservazione del mondo, ma poi si tratta di darvi un significato umano: allora, se sei abitato da un sentimento gioioso nei confronti della vita, avrai una filosofia di un certo tipo, se sei abitato da un altro sentimento ne avrai un’altra. È questa la ragione per cui spesso gli intellettuali, che vogliono reprimere i sentimenti perché vogliono essere uomini solo di ragione, finiscono nel gelo del pessimismo, della disperazione, del cinismo, perché quello che dà l’energia vitale non è la ragione, ciò che ti mette voglia di lavorare non è la ragione ma il sentimento, e in particolare, nella dimensione religiosa, il sentimento del mistero. È talmente importante questa percezione della vita come mistero che delinea le quattro tipologie umane di fronte al fenomeno religioso. Il primo atteggiamento è quello di coloro che negano il mistero: la vita non è un mistero, l’unico eventuale mistero è quello dell’origine, lo scoppio che ha determinato l’inizio, ma poi tutto procede secondo necessità.

È il razionalismo ateo, facciamo gli scienziati fino in fondo e arriveremo alla formula che tutti i mondi potrà aprirti. È il sogno della modernità. Il secondo atteggiamento è quello che riconosce il mistero ma non trova la possibilità di aderirvi, si rimane sconvolti in senso negativo. È la posizione di Bobbio e di molti altri, che potremmo definire religiosità senza religione. Il terzo è quello di chi riconosce il mistero e ha la disposizione di potervi aderire, sente di aver trovato la vita: religiosità più religione. Infine il quarto parte dal mistero ma finisce con l’addomesticarlo, lo trasforma in tanti misteri e allora si può definire religione senza religiosità. È quella modalità di vivere la religione in modo militare e militante, in modo così politico da svuotare il senso della religiosità e del mistero. Ricordo le parole famosissime di Norberto Bobbio che il cardinale Martini riprendeva spesso: la vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa. Pensare in questo caso vuol dire esercitare l’emozione dell’intelligenza di fronte al mistero, non pensare di possederlo già. La prima e l’ultima posizione pensano all’interno di una posizione già definita, la prima per demolire, la seconda per difendere ma non c’è pensiero che ricerca. Le altre due posizioni sono accomunate dal patire, dal pathos della ricerca, dalla perplessità della mente di fronte al divino. Quando mi trovo con persone così, io mi sento a casa, sento di appartenere a quella umanità che inquietando va avanti. Questo vuol dire pensare come ricerca. La fede secondo me è la sofferenza dello spirito, chi sente di credere in Dio avverte dentro di sé, nella profondità del vivere che sottosta e guida la sua ragione, il desiderio di un senso complessivo che unifichi, abbracci e raccolga tutti gli esseri viventi e non viventi. Viventi e non viventi: credere in Dio significa avvertire nella profondità del vivere il desiderio di una grande madre che unifica, abbraccia e accoglie. Chi sente di credere in Dio è abitato anche da una sottile ma insopprimibile nostalgia: nostalgia e quindi sofferenza per le promesse che la vita - questo banco di sabbia della temporalità per citare Shakespeare - contiene e che non esaudirà mai.

Nostalgia e quindi sofferenza per tutta la bontà intravista nella vita. Per tutta la potenzialità e giustizia che la vita ha portato e non sono mai state realizzate. L’organo della fede è questo sentimento che genera al contempo meraviglia e nostalgia, una dimensione di simpatia e di terrore, comunque pathos. Patendo il sentimento dell’esilio, ci si mette alla ricerca della casa, nella convinzione che ci sia: Dio come casa. Se sei abitato dall’esilio è perché da sempre sei abitato dalla certezza che la casa esista, altrimenti non potrebbe sorgere il sentimento dell’esilio. Se non ci fosse stata Itaca, la vita non sarebbe mai apparsa una odissea per farvi ritorno. La fede è intuizione del cuore, che è la sigla che meglio di tutte dice la complessità del fenomeno umano. Il cuore: unità di ragione, sentimento, azione. Non riesco a trovare un’espressione migliore per dire che cosa è un uomo se non dire che è il cuore. Quanto vale un uomo? Dipende dal suo cuore, che è intelligenza, passione, sentimento, coraggio – la medesima radice di cuore. Concludo: che cosa significa credere in Dio? Significa sentire che la fede in quanto intuizione del cuore dice a ciascuno che c’è un senso ultimo delle cose che supera il tuo piccolo io e con cui il tuo piccolo io si può porre in relazione. Lo scopo ultimo del tuo vivere è prendere coscienza che ne fai parte e che ad esso ti puoi consapevolmente unire con la tua libertà. C’è una realtà suprema del mondo, lo scopo del tuo vivere è relazionarti con devozione a essa. Questa realtà suprema da noi in occidente convenzionalmente è stata chiamata Dio. Il senso dell’esistenza credente consiste proprio nel gettare un ponte tra la parte più alta e nobile di noi e questo senso di tutte le cose. 

IN PRINCIPIO È LA RELAZIONE
Principio è molto più che inizio. Inizio è la campanella che dà avvio alla lezione. In principio è la relazione che ha generato il nostro essere, ma pure la mantiene in vita e ne è meta. La relazione è il principio costitutivo dell’essere umano: inizio, cammino, meta del suo esistere. Tuttavia, “religione è ciò che l’individuo fa della propria solitudine” (... Whitehead, 1926). L’individualità, la solitudine interiore, la capacità di dire io è fondamentale quanto la relazione. L’armonia tra le due componenti è l’arte del vivere. (Vito Mancuso)

segunda-feira, 25 de julho de 2011

Deus-breves traços para uma antropologia filosofica

Solilóquios I
Salvar Deus?


De qual Deus és ateu? A pergunta não é impertinente. Por minha parte, eu não acredito em Deus algum, mas sei bem ao Deus em que acreditei durante a minha infância e a minha adolescência, um Deus presente, ainda hoje, deste Deus eu me importo, e ao qual, precisamente, não acredito mais. Não é o Deus dos filósofos, ou nem tanto. Não o Motor Primo de Aristóteles, tanto chato quanto imóvel. Não o Deus de Descartes, o qual não explica tudo  somente porque é incompressível. Não é o Deus de Espinosa, que não é um Deus. Ainda menos o Deus de Leibniz, com os seus cálculos infinitos e sórdidos. E nem aquilo dos padres, das homilias, dos teólogos. Nem aquilo dos hipócritas o dos preconceituosos. Não! O Deus  que me interessa, que me toca dentro e em que eu não acredito é o Deus de Abraão, de Isaac e de Jacob. É o Deus de Pascal (aquilo do Memorial, não da aposta) É o Deus de Jesus Cristo. Um Deus de amor, então, e não o amor como Deus. Alguém, não alguma coisa. Uma pessoa, ou três, não um princípio, um valor ou uma abstracção.
           
Acreditar no amor? Existe algo de mais vão, já que a sua existência não é objecto de dúvida? O Homem-Deus? Que Deus mísero nem consegue! O que é mais este Deus mortal, tanto mais capaz do pior que do melhor (a santidade é a exepção, o egoísmo a regra)? O que é mais este Deus que nem sabe se é Deus (já que não pode se-lo se não a condição que Deus, o verdadeiro Deus, não exista, coisa que ninguém sabe)? Acreditar no homem? Inútil. Adora-lo? Impossível. É melhor entende-lo, quanto é possível, respeitar aqueles que o encontram, mas desconfiar quando não se conhece (é o que ensinamos aos nossos filhos, e temos razão de faze-lo), perdoa-los sempre, ajuda-los as vezes, ama-los quando podemos...É o espírito dos evangelhos. É o espírito de Montaigne e de Espinosa. É, para mim, o espírito verdadeiro. Humanismo da vigilância. (“Caute”, dizia Espinosa: “Desconfia”) e da misericórdia (“Seja sábio quanto quiseres”, escrevia Montaigne, “mas fica sempre um homem: o que ha de mais caduco, de mais miserável e de mais insignificante?) (Essais, II, 2). O humanismo não é a nossa religião: é a nossa moral. O homem não é o nosso Deus: é o nosso próximo.
Em breve, não procuremos substitutos de Deus: não sacrifiquemos aos ídolos, ainda se fossem humanos ou humanistas.

“Deus é grande”, me dizia um amigo, “é uma tautologia. “ Deus é amor”, este sim que é interessante!” Estou de acordo, e é o único Deus, na verdade, que me interessa.
Não é um motivo para acreditar em ele. Ao contrario, é um motivo para recusa-lo. Uma crença que corresponde  “in toto”  aos nossos desejos mais fortes, existem aqui todos os motivos para pensar que tenha sido inventada por isso. É aquilo que S. Freud chama de ilusão, em outras palavras “uma crença derivada dos desejos humanos”; e se tudo isso não demonstra a inexistência de Deus (uma ilusão, observava Freud, não necessariamente é um erro!), isto faz da existência de Deus tanto mais duvidosa quanto mais ela é desejável. Ter ilusões significa considerar os desejos como realidade. Já que nada, por definição, é mais desejável de Deus, nenhuma crença é mais suspeita de ilusão que a fé na sua existência. Mas se dirá que a fé é mais de uma crença. Eu deixo subtilezas similares aos teólogos, e estou feliz de levar a serio o credo: ele melhor resume o que eu não acho.

Há também muito mal em todos os lugares e mediocridade de mais no homem porque a ideia de um Deus criador, omnipotente e ao mesmo tempo infinitamente bom, me apareça simplesmente credível.  Mais me conheço, menos posso acreditar em Deus. E mais  conheco os outros, ainda menos tudo isto combina.
Alem disso, deste Deus, também na minha juventude fervente, eu nunca tive a menor experiência. Porque deveria acredita nele agora? É um “ Deus escondido” (Deus absconditus) ? Bom para ele. Eu, alias, já não tenho idade para brincar ao jogo de esconde-esconde.

Quanto a minha maneira de ser ateu, posso caracteriza-la em uma frase: sou ateu não dogmático e fiel.
Ateu, certo, é o dado mais simples, já que não acredito em Deus.
Porque ateu não dogmático? Porque evidentemente reconheço que o meu ateísmo não é um saber – já que não é possível nenhum saber sobre Deus o sobre a sua inexistência. Tudo depende então da pergunta que me vem feita. Se alguém me pergunta: “ Você acredita em Deus?” a resposta é muito simples: é não. Em troca se me se pergunta: “ Deus existe?”, a  resposta é necessariamente um bocado mais complicada: porque, por honestidade intelectual, eu tenho que começar a dizer que não sei nada sobre o assunto. Não é um problema de incompetência por minha parte: o facto é que a pergunta supera qualquer saber possível ( sobre isto ver Montaigne, Pascal, Hume, Kant). Eu acho que se tu encontras alguém que diz: “ Eu sei que Deus não existe”, não se trata em primeiro lugar de um ateu, mas de um imbecil. E o mesmo acontece se por acaso encontras alguém que diz: “ Eu sei que Deus existe”. Se trata de um imbecil que tem fé ( coisa que eu não censuro de maneira alguma) e que tolamente, toma a própria fé por um saber – no qual caso constitui um dúplice erro: teológico ( a fé é uma graça, coisa que o saber não pode ser) e no mesmo tempo filosófico ( porque confunde dois conceitos diferente: a crença e o saber).
A vezes me dizem que eu sou mais agnóstico que ateu. Isto significa fraintender o agnosticismo. O agnóstico não é aquele que reconhece de não saber se Deus existe ou não ( seja os crentes e seja os ateus o reconhecem, se são lúcidos), é aquele que decide de seguir esta confissão de ignorância, que recusa de decidir, que deixa a questão aberta, é um “ sem opinião”. Esta na verdade não é minha posição. Eu não sei se Deus existe ou não. Mas acho que não exista. Um ateu não dogmático não é menos ateu que um outro. E’ simplesmente mais lúcido.

Porque então, ateu fiel? Porque, embora ateu, e agora com cinquenta anos, eu fico ligado, com todas as fibras do meu ser, a um certo numero de valores que foram forgiados e transmitidos, pelo menos em parte, nas grandes tradições religiosas, e em modo particular, já que esta é a minha historia, na tradição judaico-crista. Que Deus exista ou não exista, o que muda isto a grandeza do Ecclesiastes? O que tira tudo isto ao peso moral da mensagem evangélica? Eu sei bem que, por Jesus, é a fé, não o amor, que salva ( é um ponto, dito entre parênteses, que os nossos cristão humanistas as vezes esquecem). É por isso que eu não sou nem cristão nem cristico. Mas a fé abrange o campo da religião não da moral.
Que Jesus acreditou em Deus, é mais que verosímil. Isto não me obriga a acreditar eu também, nem a renegar o resto da sua mensagem. Era um judeu pio: o que não me obriga o seu judaísmo mais que a sua piedade, e não me impede em matéria de ética – e como fazia Espinosa – de reconhecer a beleza, a nobreza, a profundidade, o fascínio da sua mensagem.
É a verdade, não a fé que salva: é o amor, não a esperança que faz viver. Em isso eu acredito, é isso o que me faz ateu, e quanto vou dizendo eu, em parte, encontro nos evangelhos, na maneira minha de le-los, é quanto eu chamo com Espinosa “ o espírito de Cristo” (A. Matheron, 1971), que por muitos anos nutriu a minha infância, a minha adolescência e que continua, de vez em quanto, a me iluminar e fascinar. Não é que eu passe o meu tempo a reler os evangelhos: fazendo-o logo me apanha o tédio (como todos os testos escritos por e para prosélitos são chatos): mas tessi, ao longo dos anos, uma sorta de Cristo interior, que teria perdido a fé (“ Deus meus, Deus meus, porque me abandonaste?”) e que por isso seria somente mais livre, mais lúcido, mais amorável. Um buddha? Se se acha melhor. Mas que colocaria o amor mais em alto que a sabedoria, e isto é o que significa para o ateu como sou eu, a loucura da cruz. Vale muito mais um amor doloroso que uma serenidade que fosse sem amor.

O que é o absoluto? O que não depende de relação alguma, de alguma condição, de algum ponto de vista. É portanto o relativo mesmo, na sua totalidade. O conjunto de todas as relações é sem relação com o nada, porque é o tudo; o conjunto de todas as condições é necessariamente incondicionado; o conjunto de todos os pontos de vista não é um ponto de vista.
O que é o infinito? O que nada pode limitar: o conjunto das coisas finitas é então infinito o, pelo menos, indefinido. Todos os seus limites estão no seu  interior. Como poderiam limita-lo?

O que é a eternidade? Um presente que resta presente: é então  o presente mesmo, que muda e continua, que nos deixaremos, mas que não nos deixará nunca. O “ perpetuo hoje de Deus”, como dizia santo Agostinho, é também, e melhor, o perpetuo hoje da natureza ( o sempre-presente do real) e do pensamento ( o sempre-presente do verdadeiro). E o passado? Não é, porque não é mais. E o amanhã? Não é, porque ainda não é. Existe então somente o presente, e o mesmo não para de mudar ( não confundimos o eterno com o imutável) e de continuar. Como poderia cessar  o presente, já que não há mais outra coisa. Somos já no Reino: a eternidade é agora.

“ Nos sentimos e experimentamos”, escreve Espinosa, “ que somos eternos”. Não no sentido que o seremos, depois da nossa morte, coisa na qual Espinosa não acredita absolutamente, como eu também, mas no sentido que o somos, aqui e agora. E me aconteceu, na verdade, mais o menos de o experimentar. Sim, me aconteceu – raramente, excepcionalmente, mas em maneira assim forte que toda a minha vida resultou despedaçada – de viver momentos libertados da falta ( é o que chamo de plenitude), da linguagem ( é o que eu chamo de silencio), do passado e do futuro  ( é o que eu chamo de eternidade), da esperança e do temor ( é o que eu chamo de serenidade), da separação entre  eu e o tudo (é o que eu chamo de unidade), entre mi e mi mesmo (é o que eu chamo de simplicidade), enfim de momentos liberados de mi mesmo, e é o que eu chamo de absoluto. Ser ateu não significa renunciar a qualquer tipo de vida espiritual. Ao contrario significa dar  a si mesmo instrumentos, pelo menos teóricos, de uma diferente espiritualidade: de uma espiritualidade naturalística em vez  de humanística, quietista em vez de jansenista ( Pascal é um génio imenso, mas não um mestre espiritual), de imanência em vez de transcendência, de fusão em vez de encontro, de verdade em vez de sentido, de silencio em vez de palavra, de sabedoria em vez de santidade, de meditação em vez de oração, em fim de enstasi, como dizem os tratados de mística comparada, no lugar de êxtase. “ Até  que tu  colocas  uma diferença entre o absoluto e o relativo, tu estas no relativo. Até que  colocas uma diferença entre a eternidade e o tempo, tu estas no tempo. Até que tu colocas uma diferença entre a salvação e a perdição, tu és perdido”. Ou ainda – e como diria com prazer ao meu amigo Jesus, talvez estaria de acordo: “ Até que tu colocas uma diferença entre o Reino e o mundo tu estas…no mundo”. ( M.Onfray,2005). E onde mais poderíamos estar, dado que este mundo  é tudo o que temos. É somente em este sentido, a meu parecer, que nos já estamos no Reino, não graças  a esperança, não pela  fé, não porque o amor seria forte como a morte, como diz tolamente o Cantico dos Canticos, mas porque a morte, até que nos somos vivos, não pode nos impedir de amar nem, até que nos  amamos, de viver.  
Não é o homem que é Deus, nem Deus que se faz homem; são alguns homens que inventaram a ideia de Deus, quando não era por superstição, por expressar em eles ( ver  Etty Hillesum, ver Simone Weil) o que havia de mais grandes em eles: a verdade, a justiça e o amor. Deus seria a unidade omnipotente dos três. Mas também quando os três existem somente separados, como eu acredito ( a verdade não é suficiente para a  justiça, nem a justiça para o amor), e debilmente (é o que significa mais o menos  o ateísmo), é talvez um motivo para parar de ama-los, e de procura-los? O importante não é  acreditar ou não acreditar em Deus. O importante é não trair este poder que temos em nos mesmos de pensar, de julgar e de amar: o importante é o espírito, que é totalmente de graça e de misericórdia.

O facto que este espírito não exista se não em corpos viventes, a atreves deles e graças a eles, que não se desenvolva se não no seio de uma sociedade, uma historia, uma cultura, e graças a eles, eu estou convencido ( é por isso que sou materialista). E por causa de todo isto, que ele  é  mais  frágil e precioso. Se Deus existe, o espírito, por definição é imortal. O essencial é adquirido: é em isso a religião, quase sempre é o contrario do trágico. Se Deus não existe, é o inverso: cada espírito é frágil, provisório, mortal, como são também os nossos filhos, e nos sabemos por experiência, que esta não é uma razão suficiente para ama-los menos, pelo contrario, nem para protege-los menos, nem para educa-los menos. É o trágico mesmo: dar mais valor possível a aquilo que é destinado a perecer. ( M. Conche, 1990) O espírito de Cristo, para o ateu qual  é  sou, é o espírito do filho (“ Não vim para abolir, mas para levar ao compimento”: é o que eu chamo de fidelidade), e é o mesmo espírito do pai ou da mãe ( filho meu: meu amor). Que Deus seja Pai e Filho, e que este filho tive uma família, aqui esta o verdadeiro segredo do cristianismo. Antropomorfismo? Claro. Mas qualquer religião sem antropomorfismo seria inumana, e por consequência  impossível.

Que Maria seja virgem, é um pormenor ridículo, quase  grotesco, podemos dizer um mito ou uma superstição a mais. Mas que Jesus tive uma mãe, não. O Stabat mater de Pergolesi ou a Piedade de Michelangelo nos dizem muito mais, deste ponto de vista, de todo aquele numero de aparições, ou assim pensadas, que o Vaticano ostina-se a celebrar. A ultima das mães reais vale muito mais, se é amorosa ( e o são quase todas), de tudo o culto mariano.
Depois há a Cruz, e aquilo que ela simboliza. Não a glorificação do sofrimento, como pretendem alguns, mas a vitima inocente e obrigada ao suplicio: o amor ultrajado, umiliado, martirizado, “ sempre vencido”, como dizia alguém, “ que renasce ao terceiro dia” É mesmo assim. Não é a vitoria que nos amamos, mas  o amor e a vida. “ Como faz você”, escreve  Espinosa a um dos seus colaboradores, “ eu tomo a paixão de Cristo, a sua morte  e a sua sepultura a letra:, mas ao contrario de você, a sua ressurreição eu a tomo no sentido alegórico” ( B. Espinosa, Lettre 78).  Para significar o que? Não que Jesus não morreu, mas que a morte não pode anular aquilo que ele viveu, nem aquilo que nos vivemos.
O Presépio, o Calvário: duas ícones da fraqueza extrema. É o contrario do Deus omnipotente, e é por isso que, no meu ponto de vista, Jesus não é Deus. E então? Não é a potencia que nos amamos, nem Deus, mas o amor, a justiça e a verdade. Pelo menos, é o que eu procuro ser  fiel, na medida do possível, segundo as minhas possibilidades, e muitas vezes dolorosamente. A cada um a sua cruz, entre os dois ladroes. “ Deus meus, Deus meus, porque me abandonastes?”.  Porque não existe: não por culpa sua, evidentemente, nem por culpa nossa.
O importante não é que o espírito seja imortal ou não o seja ( não temos que confundir eternidade com perpetuidade). O importante é que permaneça vivo até que nos viveremos, até que viverão os nossos filhos e os filhos dos nossos filhos. Somente isto depende de nos e exige todo o nosso esforço.
“ Os muitos leitores de Lucrécio”, observava alguem, “ sabem o que significa salvar o espírito negando o espírito”. Significa salva-lo em quanto acto, e nega-lo em quanto substancia. Significa salvar o espírito vivente, negando a sua imortalidade. Mas o que conta é o espírito, não a negação.


Novembro 2010
Pietro Andriotto