A formaçao do homem

"O que um homem pode ser, ele tem de ser" A. MASLOW



quinta-feira, 24 de novembro de 2011

La difficoltà del vivere


Vorrei dichiarare subito la mia posizione in ordine al tema delle difficoltà del vivere. Noi siamo un edificio complesso: la lingua greca, una delle lingue che più ha dato al pensiero umano, ha espresso molti termini per dire la molteplicità della ricchezza che portiamo dentro di noi: soma, bios, zoe, psiche, logos, nus, pneuma. Possiamo fare una sintesi di tutti questi termini, che è la stessa fatta dall’apostolo Paolo, e dire che noi siamo: corpo, psiche e spirito. In ordine alla sofferenza, per quanto attiene alla dimensione corpo, possiamo dire che meno c’è sofferenza meglio è, e quindi bandire ogni tipo di dolorismo. Per quanto attiene alla dimensione psichica, al nostro carattere, alla disposizione di fondo con cui guardiamo agli altri e a noi stessi, più c’è armonia, meno c’è sofferenza, meglio è. E ogni impostazione che vuole introdurre tristezza e angoscia all’interno della dimensione psichica, è dannosa. Io sono convinto che il cristianesimo abbia un vero e proprio “peccato originale” da scontare nei confronti dell’umanità che consiste nell’avere gravato il fenomeno umano di questo grande senso di colpa originario per il fatto stesso di esserci. Ma poi esiste una dimensione nella quale ci diciamo come spirito, ed è la dimensione della libertà, dove la sofferenza è costitutiva dell’essere umano, e ogni impostazione che voglia pensare il rapporto con Dio, con l’Intero, senza sofferenza, è falsa. Se qualcuno non vuole avere a che fare con la sofferenza dello Spirito, può cessare di credere in Dio. Ci sono persone che rinunciano a ogni tipo di esercizio spirituale e credenza in Dio e si sentono come sollevate: finalmente respiro! Ci sono persone così perché esiste una modalità negativa di collegare il divino con le sofferenze del corpo e della psiche; ma esiste anche una responsabilità della coscienza libera, che si pone di fronte al complesso del mondo, di natura e di storia, lo osserva come dall’alto, si percepisce nel suo spirito come “diverso” e reagisce soffrendo. Io penso che questa forma di sofferenza sia riconducibile a quello che Aristotele chiamava nus pateticos, intelletto passivo, spirito non creativo: se penso e dico delle cose è perché subisco degli stimoli che mi fanno reagire e quindi io sono intelletto passivo devo essere attivato, sono un fenomeno che reagisce. 
Ma l’uomo ha un intelletto superiore a questo, una scintilla, spirito creativo, intellettivo attivo, ovvero per essere, pensare, agire, non ha bisogno di essere attivato, può agire e non solo reagire. Sono libertà, chiaramente condizionata, ma esiste una dimensione dentro di me che è attiva e questa è lo spirito, la libertà. È dalla sofferenza nel senso più bello del termine, dal pathos, l’emozione vitale della passione, dal pathos dello spirito attivo dentro di me che nasce la fede in Dio. La fede in Dio non nasce da un “buco da colmare”, da una sofferenza da placare, ma è un ponte tra il mio spirito che vuole il bene, la libertà, la giustizia e il senso complessivo del mondo. Se guardo il mondo come si pone di fronte a me, senza tradire il mio desiderio di giustizia, mi trovo inevitabilmente scisso: so che sono un fenomeno del mondo, ma se guardo il mondo all’interno di questa dimensione più alta che il mondo ha prodotto in me, non mi ritrovo a casa. Provo un sentimento di esilio, di estraniazione per il prevalere di logiche che non sono quelle del bene e della giustizia a cui sento di appartenere. La fede in Dio è questo ponte che unisce la scintilla di bene incontaminata che esiste dentro di noi e il senso complessivo del mondo.

Chi crede in Dio costruisce questo ponte. È questo il senso con cui Bonhoeffer nominava la forza: sentiva la tattica degli apologeti che ricordavano le debolezze dell’uomo, per invocare il pentimento, e non voleva assumerla; al contrario voleva partire dalla forza dell’uomo. La forza non è il nostro corpo, che prima o poi è destinato a non essere più quello di un tempo; né la nostra psiche, il carattere, che da una parte ci esprime e dall’altra ci limita. Qual è allora la forza dell’uomo? Secondo me il maestro di coloro che sanno è lo spirito, questa dimensione di libertà creativa che si dà dentro di noi, che si dà in diversi modi, attraverso doni speculativi, artistici, musicali, quotidiani. I quali tutti devono essere orientati a creare rapporti di armonia, di gratuità, di generosità dell’esistenza. Più si capisce la vita più si comprende che il senso sta proprio nella generosità, nella creazione che è sempre un atto generoso se è profondo. Basare la fede in Dio sulla forza dell’uomo, sulla nobiltà umana. Esercitare la parte più alta di noi, la ragione, per guardare il fenomeno mondo, e per guardare tutto: la fede non è cieca, è guardare tutto, raccogliere tutti i pezzi di mondo, anche quelli che non vogliamo vedere, quelli che vorremmo mettere sotto il tappeto della mente, e metterli di fronte agli occhi. Guardare tutto, vedere con sguardo pulito, disincantato è una grande operazione di verità. Al centro della modernità c’è un personaggio che ha compiuto questa operazione, Kant: ha esercitato nel modo più rigoroso e onesto possibile l’esercizio del vedere ed è giunto a inchiodare la ragione alla logica che implacabilmente si impone a chi guarda tutto. Questa logica si chiama antinomia: la contraddizione della vita vista e pensata. È la contraddizione istituita, la consapevolezza che il mondo si muove in modo contraddittorio e quindi so di essere al cospetto di una antinomia. Cosa significa antinomia? Contrasto tra le leggi. Questa parola di origini giuridiche è entrata in filosofia per dire lo statuto della mente quando guarda il mondo. Noi avremmo mille ragioni per dire che la vita è giusta, che esserci è una benedizione, che l’umanità è la gloria dell’universo, e avremmo mille ragioni per dire che la vita non è giusta, che esserci può essere una maledizione, che il mestiere di vivere può portare a non voler più vivere e che l’umanità è ben lungi dall’essere la gloria dell’universo, semmai è il terrore dell’universo. Il punto è che noi siamo al contempo coloro che producono la malattia e gli unici che hanno la possibilità di guarirla, conteniamo davvero tutto. Pensare l’antinomia significa percepire il mistero. Norberto Bobbio come noto si dichiarava non credente; il 10 gennaio 2004, il giorno dopo la sua morte, su La Stampa di Torino compare una sua lettera scritta qualche anno prima, oggi nota come ultime volontà. In questa lettera scriveva: “non sono né ateo né agnostico, come uomo di ragione non di fede so di essere immerso nel mistero che le religioni interpretano in vari modi e di fronte a quel punto la ragione si ferma”. Come uomo di ragione non di fede: in queste parole è contenuto il passaggio dalla modernità alla post-modernità. La modernità si poggiava sulla convinzione che esercitando la ragione il mistero della vita avrebbe potuto essere sciolto. La post-modernità si gioca invece sull’idea opposta: esercita la ragione fino in fondo e sarai posto di fronte al mistero. Gli stessi scienziati si dividono di fronte ai dati oggettivi che la loro stessa scienza presenta: tra il 1910 e il 1913 Alfred Whitehead e Bertrand Russell scrivono i Principi della matematica in tre volumi, pubblicati a Cambridge. Ovvero questi due grandi logici sono così d’accordo sull’esercizio della logica e della matematica da scrivere insieme tre volumi fondamentali nello studio della matematica. Tuttavia Whitehead è diventato uno dei pensatori metafisici più importanti per la filosofia della religione e per la teologia, autore tra l’altro de La religione nel suo farsi, mentre Russell è diventato uno dei padri dell’ateismo contemporaneo. Nel fenomeno umano c’è qualcosa di più della semplice logica matematica, che ne è una parte importante e positiva ma non riesce a dire il tutto della vita, se gli stessi logici matematici, che pure sono uniti nel lavoro, quando devono dire il sentimento ultimo di fronte alla vita, prendono strade diverse. La stessa cosa si può dire riguardo alla fisica, alla genetica, la ragione è guidata da qualcosa di superiore, è a servizio di una dimensione ulteriore che si chiama sentimento della vita, del mistero. La ragione ci offre tutti i dati che ricava dall’osservazione del mondo, ma poi si tratta di darvi un significato umano: allora, se sei abitato da un sentimento gioioso nei confronti della vita, avrai una filosofia di un certo tipo, se sei abitato da un altro sentimento ne avrai un’altra. È questa la ragione per cui spesso gli intellettuali, che vogliono reprimere i sentimenti perché vogliono essere uomini solo di ragione, finiscono nel gelo del pessimismo, della disperazione, del cinismo, perché quello che dà l’energia vitale non è la ragione, ciò che ti mette voglia di lavorare non è la ragione ma il sentimento, e in particolare, nella dimensione religiosa, il sentimento del mistero. È talmente importante questa percezione della vita come mistero che delinea le quattro tipologie umane di fronte al fenomeno religioso. Il primo atteggiamento è quello di coloro che negano il mistero: la vita non è un mistero, l’unico eventuale mistero è quello dell’origine, lo scoppio che ha determinato l’inizio, ma poi tutto procede secondo necessità.

È il razionalismo ateo, facciamo gli scienziati fino in fondo e arriveremo alla formula che tutti i mondi potrà aprirti. È il sogno della modernità. Il secondo atteggiamento è quello che riconosce il mistero ma non trova la possibilità di aderirvi, si rimane sconvolti in senso negativo. È la posizione di Bobbio e di molti altri, che potremmo definire religiosità senza religione. Il terzo è quello di chi riconosce il mistero e ha la disposizione di potervi aderire, sente di aver trovato la vita: religiosità più religione. Infine il quarto parte dal mistero ma finisce con l’addomesticarlo, lo trasforma in tanti misteri e allora si può definire religione senza religiosità. È quella modalità di vivere la religione in modo militare e militante, in modo così politico da svuotare il senso della religiosità e del mistero. Ricordo le parole famosissime di Norberto Bobbio che il cardinale Martini riprendeva spesso: la vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa. Pensare in questo caso vuol dire esercitare l’emozione dell’intelligenza di fronte al mistero, non pensare di possederlo già. La prima e l’ultima posizione pensano all’interno di una posizione già definita, la prima per demolire, la seconda per difendere ma non c’è pensiero che ricerca. Le altre due posizioni sono accomunate dal patire, dal pathos della ricerca, dalla perplessità della mente di fronte al divino. Quando mi trovo con persone così, io mi sento a casa, sento di appartenere a quella umanità che inquietando va avanti. Questo vuol dire pensare come ricerca. La fede secondo me è la sofferenza dello spirito, chi sente di credere in Dio avverte dentro di sé, nella profondità del vivere che sottosta e guida la sua ragione, il desiderio di un senso complessivo che unifichi, abbracci e raccolga tutti gli esseri viventi e non viventi. Viventi e non viventi: credere in Dio significa avvertire nella profondità del vivere il desiderio di una grande madre che unifica, abbraccia e accoglie. Chi sente di credere in Dio è abitato anche da una sottile ma insopprimibile nostalgia: nostalgia e quindi sofferenza per le promesse che la vita - questo banco di sabbia della temporalità per citare Shakespeare - contiene e che non esaudirà mai.

Nostalgia e quindi sofferenza per tutta la bontà intravista nella vita. Per tutta la potenzialità e giustizia che la vita ha portato e non sono mai state realizzate. L’organo della fede è questo sentimento che genera al contempo meraviglia e nostalgia, una dimensione di simpatia e di terrore, comunque pathos. Patendo il sentimento dell’esilio, ci si mette alla ricerca della casa, nella convinzione che ci sia: Dio come casa. Se sei abitato dall’esilio è perché da sempre sei abitato dalla certezza che la casa esista, altrimenti non potrebbe sorgere il sentimento dell’esilio. Se non ci fosse stata Itaca, la vita non sarebbe mai apparsa una odissea per farvi ritorno. La fede è intuizione del cuore, che è la sigla che meglio di tutte dice la complessità del fenomeno umano. Il cuore: unità di ragione, sentimento, azione. Non riesco a trovare un’espressione migliore per dire che cosa è un uomo se non dire che è il cuore. Quanto vale un uomo? Dipende dal suo cuore, che è intelligenza, passione, sentimento, coraggio – la medesima radice di cuore. Concludo: che cosa significa credere in Dio? Significa sentire che la fede in quanto intuizione del cuore dice a ciascuno che c’è un senso ultimo delle cose che supera il tuo piccolo io e con cui il tuo piccolo io si può porre in relazione. Lo scopo ultimo del tuo vivere è prendere coscienza che ne fai parte e che ad esso ti puoi consapevolmente unire con la tua libertà. C’è una realtà suprema del mondo, lo scopo del tuo vivere è relazionarti con devozione a essa. Questa realtà suprema da noi in occidente convenzionalmente è stata chiamata Dio. Il senso dell’esistenza credente consiste proprio nel gettare un ponte tra la parte più alta e nobile di noi e questo senso di tutte le cose. 

IN PRINCIPIO È LA RELAZIONE
Principio è molto più che inizio. Inizio è la campanella che dà avvio alla lezione. In principio è la relazione che ha generato il nostro essere, ma pure la mantiene in vita e ne è meta. La relazione è il principio costitutivo dell’essere umano: inizio, cammino, meta del suo esistere. Tuttavia, “religione è ciò che l’individuo fa della propria solitudine” (... Whitehead, 1926). L’individualità, la solitudine interiore, la capacità di dire io è fondamentale quanto la relazione. L’armonia tra le due componenti è l’arte del vivere. (Vito Mancuso)

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